sabato 22 agosto 2020

QUANDO IL CUORE E' UNA QUESTIONE DI PANNA

 “Se quello che cerchi è un cuore da amare … un piccolo cuore per farti sognare…”


È poco nobile ricordare e canticchiare il jingle pubblicitario di un gelato, anziché una canzone scritta da qualche importante Artista?

Certo, i pubblicitari sfruttano i sentimenti, usano dolci parole d’amore per piazzare delle merci; secondo quelli a cui piacciono i paroloni grossi, si tratterebbe addirittura di “pornografia dei sentimenti”.

In realtà, per quanto il consumismo sia disdicevole nei suoi scopi, personalmente ho sempre ritenuto che un musicista, disegnatore o regista, se presta il suo talento ad una finalità commerciale come la vendita di un determinato prodotto, non smette per questo solo di essere un artista.

Perciò, ad allietare questo scorcio d’estate triste e virulenta, ben vengano i tanti disegnatori di fumetti che hanno dedicato la loro arte a pubblicizzare i GELATI, prodotto estivo per antonomasia.

Andando indietro coi ricordi, mi sembra di aver cominciato ad apprezzare il gelato con il Camillino. E dunque la prima immagine che vi propongo non può che essere quella disegnata da Benito Jacovitti (1923 – 1997) per lanciare questo prodotto della Eldorado.



I gelati al biscotto mi sono sempre piaciuti: peccato che non ho fatto in tempo ad assaggiare questo.



Il Fortunello della Alemagna doveva essere uno spettacolo, sia perché sembra (almeno dalle immagini pubblicitarie) più largo del mio Camillino, sia perché dedicato ad un classico personaggio dei fumetti: Happy Hooligan, nato addirittura nel 1900, e sbarcato in Italia non molto tempo dopo, sul Corriere dei Piccoli, nel 1908. O forse il merito è del cartellone di Mario Menzardi (1914 - 2007), talmente bello che la casa d’arte Cambi lo ha offerto in asta nel Giugno 2019.

Ma torniamo alla Eldorado.

Ecco un’altra pubblicità disegnata dal grande Jacovitti, per un gelato che non ricordo in effetti di aver assaggiato:



ed una molto più rara, genericamente dedicata alla produzione Eldorado, firmata “Descar”; dovrebbe trattarsi del fumettista Carlo Desiderati, sul quale non dispongo di alcuna notizia biografica.



Leggere giornalini a fumetti negli anni Settanta e Ottanta significava inevitabilmente imbattersi in pubblicità di gelati. Molti sono della Algida, la mia marca preferita, quella che ha inventato il mitico Cornetto.


Ma non posso dimenticare gli amati albi dei supereroi della Editoriale Corno, che spesso, sulla quarta di copertina, mostravano gelati da tempo scomparsi come il cono Atomic della Motta


o l’ Hippy della Tanara, un marchio dimenticato nelle nebbie della storia.


Finora ho parlato di gelati industriali, confezionati; quelli che certamente suscitavano più curiosità, coi nomi e le forme buffe, spesso creati ad arte per ingolosire i bambini.

In realtà, se si studia un po’ la storia del gelato come prodotto, si deve risalire a qualche secolo prima che si inventasse il moderno packaging.

Nel libro “Necessario indispensabile”, catalogo di una mostra sulla diffusione dei prodotti commerciali in Italia, allestita a Milano nel 1991, si legge che “All’era della dominazione araba in Sicilia si può senz’altro ipotizzare la nascita delle prime scuole di maestri gelatieri siciliani, ma il gelato vero e proprio, cioè il mantecato di crema, risale al XVI secolo, a opera del fiorentino Bernardo Buontalenti”.

Sarà vero? La voce “gelato” su Wikipedia, curiosamente, non cita né il Buontalenti (forse non aveva abbastanza talento) né gli arabi (ai quali viene attribuito solo il sorbetto), ma la Sicilia c’entra comunque; si parla di un cuoco di Aci Trezza, Francesco Procopio dei Coltelli (1651 – 1727), che avrebbe introdotto il gelato a Parigi fondando il café Procope, tutt’ora esistente.

Il catalogo e la enciclopedia online concordano però nel ricordare l’importanza della scuola del Cadore, in provincia di Belluno, i cui maestri diffusero il gelato in nord Europa anche grazie all’invenzione del cono (o cialda).

Il dilemma tra gelato industriale, con le sue confezioni multicolori, e gelato artigianale, con la sua aspettativa di maggiore genuinità, è sempre di attualità. Anche i miei figli, da bambini, si dividevano: il maschietto voleva il Cooky snack, la femminuccia la coppetta alla fragola. C’era a volte da diventar matti per soddisfarli contemporaneamente.

Visto che il precedente post sui cerotti l’ho concluso con un disegno di John Henry Hintermeister, che ha suscitato la curiosità di un lettore, ecco un’ opera in tema dello stesso autore: “Kiss for ice cream”.



Ecco un altro campione dell’epoca d’oro dell’illustrazione americana, Amos Sewell (1901 – 1983), con “Ice cream is not enough”, un’opera del 1953 che mostra la disperazione dei bambini, e delle mamme, quando il gelato non basta.



Per concludere: il cuore, nella vita, è importante.

Ma, almeno d’estate, forse lo è soprattutto quello di panna.

mercoledì 3 giugno 2020

C'ERA UNA VOLTA IL CEROTTO


La psicologia, a volte, è tutto.
Penso al vaccino che verrà, in questi giorni tristi, ed anche se spero che arrivi il più presto possibile, una parte del mio cervello non può fare a mano di rievocare la mia fobia per gli aghi, ed immaginare un liquido ostile che penetra a forza dentro il corpo…
Poi, qualche settimana fa, leggo che all’Università di Pittsburgh un team composto anche da un italiano (incredibilmente, mio compagno di classe all’inizio delle superiori) sta studiando un vaccino sotto forma di cerotto… ed ecco che cambia tutto!
Il cerotto è uno strumento familiare, amichevole, “protettivo”; così l’ho sempre percepito fin da bambino.
Mi piaceva annusarlo, mi piaceva l’odore, mi piaceva farmelo mettere dalla mamma anche per graffietti totalmente inconsistenti… cominciava a darmi fastidio solo quando, una volta bagnato, ad esempio dopo aver lavato le mani, perdeva aderenza con la pelle e cominciava a rammollirsi.
Ripassando in rassegna le pubblicità su Topolino, non è difficile trovare dei cerotti. Anzi, sul n. 945 ce n’era addirittura uno in allegato. Ce l’ho ancora, integro, non l’ho mai aperto: eccolo.

Sarei tentato dall’aprirlo, ma credo che sia “scaduto”; anche i prodotti non alimentari degradano, quando avevo i figli piccoli ho scoperto che scadono finanche i pannolini, nonostante siano fatti di plastiche varie. Mi conviene tenerlo lì, so che se lo aprissi rimarrei deluso.
E’ un po’ come quando uno riattiva la radio che aveva da ragazzo: spera che trasmetta la musica dell’epoca, che lo rimandi indietro nel tempo. Invece trasmette esattamente la stessa roba che puoi ascoltare col cellulare.
Torniamo ai cerotti. Per far divertire i bambini, cosa c’è di meglio dei colori? Ed infatti il retro della pagina pubblicitaria su cui era incollata la bustina del cerotto da aprire,  propone dei cerotti-arcobaleno… anzi, un concorso per indovinarne i colori.

Credo proprio che quella confezione di Arlecchino fu acquistata più e più volte in casa mia; ma l’unica foto del me stesso bambino, che ho trovato in versione incerottato, non mostra particolari colori… a parte che l’intera foto, con gli anni, è diventata violetta!

Comunque, i miei ricordi vanno indietro, a metà degli anni Settanta. Siccome poi, per qualche misterioso motivo, le cose antiche mi sono sempre piaciute, sono andato a vedere un po’ di pubblicità molto più vecchie, che vi propongo qui di seguito.


Per chiudere in bellezza, una illustrazione di John Henry Hintermeister (1897/1972) intitolata “Primo giorno di scuola”; si nota la disperazione del bambino alle prese con calcoli e compiti; ma, ancor più, si notano i cerotti che coprono le ferite al ginocchio.


Non potevamo vantarci di essere dei ragazzini forti, coraggiosi, avventurosi, senza riportare, come “incerto del mestiere”, qualche ferita. Il cerotto era anche il modo per mostrarle. 
Molti cerotti, molto onore. 



mercoledì 27 maggio 2020

TELEFONAMI TRA VENT'ANNI


Uscire di casa ed entrare in un cono d’ombra, un buco nero da cui si poteva essere inghiottiti, rendendosi irreperibili al mondo, a meno che non si avesse la ventura di incontrare una cabina telefonica per chiamare qualcuno. 



Questo era il nostro destino prima dell’invenzione dei cellulari. Come spiegarlo ai nostri figli?
Neonati che imparano a toccare lo schermo prima ancora di saper afferrare un oggetto.
Bambini che passano ore a chattare.
Adolescenti che terranno il cellulare in mano anche durante il primo rapporto sessuale.
No, noi eravamo di un’altra generazione. Più scomoda, forse. Ma a me, ad esempio, le cabine telefoniche piacevano un botto.
Cominciamo dallo strumento necessario per usarle: il gettone.


Quando ero bambino io, i gettoni valevano 50 lire e circolavano come se fossero denaro corrente, tutti i negozianti li accettavano esattamente come moneta, o li davano per resto. Ma quando avevo 10 o 11 anni, il valore fu portato di colpo a 100. Immaginate un bambino che ha un suo gruzzoletto in gettoni e se lo vede d’improvviso duplicare di valore. Nessun investimento in borsa o BOT, titoli o buoni, bond o JamesBond … nulla avrebbe potuto, può e potrà mai garantire un raddoppio secco del capitale dalla sera alla mattina. Ricordo bene quel momento, ma non avevo, ahimè, così tanti gettoni da potermi permettere qualche fumetto speciale. È probabile che qualche mio coetaneo, più addentro alle vicende finanziarie del paese, si fosse preparato per tempo.

C’era anche un altro modo per guadagnar soldini attraverso i gettoni telefonici; si trattava di entrare in ogni cabina e premere l’apposito pulsante attraverso il quale si otteneva la restituzione dei gettoni. C’era sempre qualcuno che dimenticava, a chiamata finita, di compiere l’operazione; così, se si aveva la faccia tosta di entrare nella cabina, sotto gli occhi dei passanti, solo per premere il pulsantino, il telefono poteva sputare fuori qualche prezioso gettone dimenticato.
Una volta ricordo che il telefono impazzì letteralmente; come una slot machine troppo generosa, lasciò cadere una cascata di gettoni sonanti; credo di aver tirato su quel giorno, se la memoria non mi inganna, almeno 600 lire.
Parlando di fumetti, è ovvio che non potevo guardare una cabina telefonica senza pensare ai tanti supereroi che ne avevano bisogno per cambiarsi d’abito.
Per Superman, che però da bambino leggevo ben poco, era una tradizione consolidata; non avendo sottomano gli albi della mia collezione, mi aiuto un po’ con google.

Il primo supereroe della storia usava le cabine telefoniche con tale velocità da entrarne come il mite giornalista Clark Kent, ed uscirne con costume e mantello; cosa facessero i suoi vestiti, non è dato saperlo.
La scena di Superman che si cambia nella cabina è così iconica, da aver dato luogo anche a varie parodie; eccone due.


La cabina telefonica consentiva di separarsi dal mondo; e gli autori di fumetti ne approfittavano per usarla come scenario fantastico; ecco un esempio tratto da Paperino.

Solo da adulto qualcuno mi spiegò che il Dottor Who, personaggio di poco successo da noi, viaggiava nello spaziotempo attraverso una cabina telefonica.

Crescendo ho molto usato le cabine per fare, dalla strada, telefonate romantiche alle ragazze che mi vergognavo di fare da casa; avevo il telefono in camera, ma mia mamma poteva entrare in qualsiasi momento con la scusa di posare un paio di mutande nel cassetto; e poi fermarsi ad ascoltare. E se si trattava di telefonate interurbane, al momento dell’arrivo della bolletta, poteva arrivare un interrogatorio di terzo grado. Decisamente meglio investire i gettoni (da ultimo, andavano bene anche normali monete).
Mi è mancata la possibilità di vivere una esperienza come quella mostrata in questa immagine, inviatami da una persona cara; ma, come si sa, non si può avere tutto nella vita.

Ora che le città sono, in un certo senso, una intera, immensa cabina telefonica, con gente che cammina e parla da sola, che futuro attende le vecchie strutture?
Alcune sono state trasformate in postazioni per book crossing, altre in fioriere. Altre affondano nel degrado.


Altre, chissà, sono pronte a partire nello Spazio.